di Andrea Salvatore Alcamisi
Chi percorre il litorale ionico della Sicilia può provare la sensazione di aver intuito le contraddizioni di questa terra. Forse è lo stesso paesaggio, così repentinamente mutevole di contrada in contrada, a fornire una rappresentazione tangibile dei suoi chiaroscuri. Gli aspri pendii dell’Etna, mentre scivolano verso la costa, si incuneano con dolcezza nel variopinto penetrare dei frutteti. La pietra nera, infatti, non può resistere a lungo al profumo selvatico dei campi e se la lava, un tempo, tutto ha divorato e tutto ha travolto, nella sua irruenza un destino di trasformazione è già stato segnato. Le ginestre, gli alberi di noce, i castagni e i meli, così solitari e svettanti nella crudeltà del vulcano, sono una promessa di ciò che verrà. E, prima di soccombere, il tempo della delizia. Allora, tutto - ciò che è e ciò che potrebbe essere - appare precario. I confini si fanno meno netti, la sterilità convive con la fertilità, i colori perdono ogni tratto distintivo, mescolandosi in rinnovate cromie. E poi il mare. Là, nella baia di Trezza, le scogliere ciclopiche, invece, segnano il limite tra il prodigioso e il vero. Là, tra la schiuma dello Ionio, una storia, sospesa tra la realtà e l’invenzione, ha provato a sciogliere una dolente libertà.
Soffermando lo sguardo sulle pagine dei Malavoglia, non è impossibile cogliere la portata nichilista del racconto. Gli umili pescatori di Trezza, alle prese con i loro guai quotidiani, non differiscono di molto dai ritmi biologici della natura selvaggia. Come le piante e gli arbusti che sfidano la voracità dell’Etna, pur opponendo una vita rigogliosa ad una fine prematura e certa, così la povera famiglia, protagonista delle pagine verghiane, prova ad innestare un principio di esistenza, accettando la violenza gratuita dei pari e gli atavici costumi degli antenati. Non per il giovane ‘Ntoni vale, come criterio di ragionevolezza, il ciclo vitale imposto da una struttura sociale e dalle sue parrocchie, in senso lato. La critica letteraria ha sempre considerato ‘Ntoni una figura scomoda, assecondata nei suoi capricci e giudicata per l’attività distruttrice, con la quale logora gli equilibri familiari. Una interpretazione siffatta potrebbe essere accettabile, se fosse ancora altrettanto credibile la consueta radiografia del nonno omonimo, prudente e saggio, contro il quale il giovane oppone una resistenza radicale.
Padron ‘Ntoni - affermiamolo chiaramente – rappresenta il pensiero fanatico. Questi, fin dalle prime battute del romanzo, scherma la propria ottusità fondamentalista dietro al paravento della tradizione e, mentre sentenzia, dissipa le vite altrui, calpestate e umiliate dalla Storia. Non tutti, però, abboccano all’idolatrata religione della famiglia, per mezzo della quale l’autorità del capostipite sorveglia, controlla e organizza la sopravvivenza. E qui che si radica, infatti, la rivoluzione del giovane ‘Ntoni, il quale aspira, invece, a vivere, quando egli incomincia a desiderare. La volizione del giovane è un atto indispensabile per dissodare il campo di tranquillità della morale comune di quel borgo, della quale non è esente il vecchio ‘Ntoni, per far emergere spietate antinomie. Per proporre una dimostrazione, si prenda il caso dell’enunciazione della legge dell’ostrica, presentata, a più riprese e con variazioni, dal vecchio pescatore come la via irrinunciabile alla conservazione dell’esistenza; la sua affermazione, al contrario, conduce all’annullamento della persona. Senza tralasciare l’intreccio narrativo, si scopre che la vicenda di Mena è l’esito esiziale di un tale meccanismo: ella rinuncia all’amore autentico per Alfio Mosca, il cui sposalizio non avrebbe garantito un avanzamento nella gerarchia sociale, per obbedire alle mire opportunistiche del nonno, il quale, invece, la vorrebbe accasata con un borghese. Ma il caso imbroglia il piano e Mena si ritrova così sola e frustrata nei suoi sogni, tanto che ella, ultima testimone e ormai svuotata del proprio sé, assiste allo sfascio di ciò che lontanamente può essere assimilato ad una famiglia.
Quando il giovane ‘Ntoni intuisce il destino di appiattimento verso il quale il nonno avrebbe voluto condannarlo, egli manifesta di contro una forte volontà di vivere, scontrandosi apertamente con lo spirito di conservazione, secondo cui lo sfruttamento e l’umiliazione sono condizioni naturali tali da essere accettate e vissute senza alcun sussulto. Di fronte ad un ragionamento collettivo di chiusura, al giovane non resta altro che affermare la propria dignità attraverso la riprovazione sociale, lo stesso strumento di controllo tipico di una società repressiva: egli si dà, dunque, alla macchia, esercitando il contrabbando, perché esso appare il mezzo più utile per scappare dall’emarginazione e dalla trappola della tradizione. È vero che egli pagherà con il carcere il prezzo della sua ribellione; tuttavia, sottilmente, tra le righe del romanzo, si intravede come il tentativo rivoluzionario del giovane abbia comunque fatto esplodere la bolla di ipocrisia e di convenienza che legava le relazioni umane degli abitanti di Trezza.
Allora, il giovane ‘Ntoni potrebbe raffigurare un primo esempio di nichilismo della letteratura italiana, portatore di un ideale distruttivo di affermazione, dove lo svuotamento interiore precede allo sfibramento della morale. Ora, lo spirito di ‘Ntoni è libero e vaga tra gli oppressi, nonostante la natura, anch’essa così contraddittoria nelle sue manifestazioni come l’uomo, non fermi le sue leggi ferree, perché il sole continuerà a luccicare tra le onde crespe di Trezza e il mare a mugghiare tra i faraglioni.