Pensare la pace
4 Marzo 2024


L'Europa. Storia di una civiltà


di Andrea Salvatore Alcamisi


La città è appena stata liberata. Il nazismo è stato sconfitto a Parigi. Un feticcio insopportabile, una bandiera di resistenza, un pungolo per la coscienza: i lumi, la rivoluzione, la repubblica, le libertà. Il professore Lucien Febvre, allora, propone, per gli studenti del Collège de France, una lettura diacronica dell’Europa, quest’ultima osservata non soltanto nei suoi confini geografici, ma specialmente nei suoi risvolti culturali. L’Europa del Febvre, nel ciclo delle lezioni dell’anno accademico del 1944-1945 edite da Donzelli nella raccolta intitolata «L’Europa. Storia di una civiltà», racconta, innanzitutto, sul tramonto del più drammatico conflitto occidentale – la Seconda Guerra Mondiale – la storia di un ideale di unità, perseguito da re, imperatori, intellettuali e rivoluzionari, in opposizione alla disgregazione delle realtà politiche del proprio tempo. Così, il franco Carlo Magno, - secondo il Febvre - il primo uomo ad immaginare l’Europa come una fonte di una nuova civiltà, reagisce all’indebolimento dell’organizzazione politica romana, costituendo il Sacro Romano Impero. E alla morte di costui, quando l’impero non trattiene più le pulsioni autonomistiche, sorgono le monarchie nazionali e con esse le spinte revanscistiche, protagoniste inquietanti del corso europeo. Nelle pagine del Febvre, il tempo si dipana come una ragnatela, inglobando il passato e il presente senza soluzione di continuità. E sempre sulla scia del rinnovamento di quell’aspirazione all’aggregazione di popoli diversi, l’Europa, come possibile centro di unità, scivola rapida sulle vicende degli uomini, i quali, per affermarla, non hanno esitato ad esercitare lo ius ad bellum o ad intraprendere sentieri più tranquilli a colpi di dissertazioni. Perciò, dalla restaurazione imperiale perseguita da Carlo V si perviene all’implosione, a causa delle guerre di religione, scongiurata dall’alba dell’Illuminismo e della sua evidenza più matura: la Rivoluzione francese. In ogni piega della ricognizione febvriana, dunque, si respira una tensione morale vertiginosa per una generazione che si stava preparando a rileggere l’attualità dolorosa del nazifascismo, dell’occupazione, della guerra, dei tradimenti e delle resistenze. Per questo motivo, l’immagine dell’Europa, che traspare dalla penna dello storico, appare come una necessità improcrastinabile per chiudere definitivamente il conto con le esperienze statali del primo dopoguerra che, nel perseguimento degli interessi imperialistici di espansione territoriale e di dominio dei mercati, avevano acceso l’incubo della morte. Meditando le riflessioni febvriane, si ha l’impressione che lo storico recuperi, forse inconsapevolmente, le concezioni del mutamento alla base dell’evoluzione delle istituzioni politiche nelle crisi di governo, come si è potuto constatare. In tal caso, la lettura della storia europea si riallaccerebbe all’antica riflessione della questione del decadimento morale delle generazioni umane, le quali misurerebbero il progresso civile sulla tenuta dei costumi ritenuti di volta in volta virtuosi per la longevità della forma politica che li governa. Ma la prospettiva febvriana, se allontana l’adagio moralistico, va al cuore dell’analisi delle fragilità di un progetto europeo nel suo porsi come una sintesi di una univoca civiltà. Infatti, il cammino dell’Europa può essere letto come un momento dialettico nel senso hegeliano dell’espressione. Nel suo farsi realtà e, dunque, nella sua violenta intrusione nella storia, l’Europa si è generata per mezzo di una impalcatura di antinomie nel tentativo di formare un baricentro di irradiazione della sua forza politica, e cioè l’essere innanzitutto un corpo che, però, non tiene in conto la somma dei suoi centri, e di quella culturale, e cioè di dotarsi di un’anima che inevitabilmente si presenta scissa quante siano le sue articolazioni. La sintesi è stata devastante per le sorti future del continente.

Infatti, l’identità dell’Europa è stata sempre costruita come un organismo alternativo ai mondi reputati periclitanti, obsoleti ed incapaci di serrare le fibre dei popoli governati. E questo fin dai tempi di Carlo Magno, perché l'Europa, come concetto storico e geografico, poté levarsi soltanto quando crollò l'Impero Romano e di conseguenza, quando l'elemento culturale nordico, e cioè la conservazione della cultura latina e il rafforzamento della Chiesa Romana, prevalse sull'elemento mediterraneo che assommava, invece, un mix esplosivo di frammentazione politico-culturale. Il pensiero greco orientale, l'ortodossia bizantina e la rivoluzione teosofica islamica, per avanzare alcuni esempi di fenomeni difficilmente assoggettabili sotto una amministrazione valida in ogni situazione, costituirono un ostacolo al progetto riformista carolingio teso ad una organizzazione politica centralista e ad una armonizzazione della sapienza tardo-antichità. L’Europa moderna nacque proprio sul terreno di una grave contraddizione: essa, mentre pensava di associare le parti acefale della vecchia civiltà romana, respingeva ciò che, a suo dire, di romano non poteva manifestare, commettendo un errore geopolitico che ancora oggi pagano i popoli europei. Infatti, l’espulsione della Grecia, del Maghreb e del Medio-Oriente, quest’ultimi laboratori di costruzione di una sensibilità comune, da un ragionamento di unità culturale, prima ancora che politica, continua a marcare in negativo il percorso odierno di unificazione tra l’Occidente e l’Oriente. E, per non esaurire del tutto l’approfondimento sulla debolezza congenita dell’istituzione europea, anche la spinta libertaria della Rivoluzione francese generò una antitesi di rilievo nel processo di formazione europeo. La degenerazione dello spirito patriottardo, di quell’impeto che in giro per l’Europa aveva atterrito come uno spettro i privilegi dell’ancien régime, accelerò le evidenze nazionalistiche, serrando la strada ad un progetto di convivenza cosmopolitica, pur nelle differenze culturali e politiche, come Kant aveva intuito, osservando con preoccupazione l’ascesa del Bonaparte.                                                                                                                                                                

All’alba delle elezioni europee si comprende bene quale sia la posta in gioco per l’immediata postura geopolitica delle istituzioni europee. Si capisce, allora, fin da adesso che l’esito delle urne non potrà essere liquidato superficialmente come un fisiologico meccanismo di rinnovamento dei partiti nell’arco parlamentare di Strasburgo. Il cittadino europeo sarà piuttosto chiamato ad esprimere un voto referendario dai contorni politici netti: o rompere con quell’antico retaggio di chiusure egoistiche e di respingimenti culturali, per porre le basi di un progetto di unità chiaramente contraria ad ogni forma di conflitto o perseguire una via di incivilimento che, ambiguamente spacciata come un miglioramento dell’autonomia degli Stati, comporterà ad un definitivo naufragio della pace tra i popoli, spinti sempre di più sull’orlo di uno sfrenato individualismo solipsistico. O la democrazia, dunque, o l’imbarbarimento. Su un tal destino il Febvre è stato molto lucido.

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